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20 aprile 2007

Buchi.


Qualche giorno fa ho bucato con il mio Scarabeo 50. Un bel chiodo arrugginito lungo così. Ecchissenefrega, direte voi.
E no. E' importante. Dovete sapere come sono andate le cose.

Ieri ho spinto lo scooter con la gomma a terra di officina in officina, pareva di essere la Sacra Famiglia in cerca di un riparo la note di Natale: nessuno aveva intenzione o voglia di aiutarmi.
Alla fine sono arrivato all'officina di un gommista. Il mio aspetto cominciava ad essere meno fresco di un'ora prima. Il gommista esce dall'officina e guarda il pneumatico forato.

"Mi spiace, non posso riparare quella gomma", dice il gommista.
"E perché?", chiedo io.
"Perché non ho l'attrezzatura", dice il gommista.
"Scusi, ma che attrezzatura le serve?", chiedo io.
"Okay, non è questione di attrezzatura. E' che devo smontare la marmitta, poi riparare la ruota e infine rimontare la marmitta. E il tutto per cambiare una camera d'aria. Insomma, perdo tempo e ci guadagno poco", dice il gommista.
"E allora che si fa?", chiedo io.
"Se smonti la marmitta e poi te la rimonti, io riparo la ruota", dice il gommista.
"Ho bisogno di una chiave esagonale da 6, una a tubo da 13 e una da 10", dico io, senza esitare.

Conosco quell'accidenti di scooter come un mujaiddin conosce il suo AK47. Il gommista mi passa la serie USAG e in meno di due minuti smonto la marmitta.
Ben gentile, a lavoro terminato mi fa lavare le mani. La pasta lavamani ha un buon odore. Mi riporta indietro di quindici anni, quando truccavo il Piaggio Sì in cortile. Altri tempi.

Stasera devo ripassare in officina e rimontare la marmitta. Se mi chiederà più di 10 euro, gli dirò che io pago solo con Paypal.
Vuole più soldi? E allora dovrà aprire un indirizzo email, un conto corrente e un account Paypal. Io sono stato sul pavimento della sua officina, adesso tocca a lui a mettersi davanti a una tastiera.
Un po' per uno, no?

13 aprile 2007

Gabbiani di periferia.

Il vantaggio di lavorare vicino ad una grossa discarica è che si possono sentire i versi dei gabbiani, anche se si sta a 200 km dal mare.
Insomma, mi fa sentire un po' più a casa.

02 aprile 2007

Moana: chissà se questa volta è la verità.

Settembre 1994. Stava finendo l'estate della mia maturità scientifica quando Moana, che era colpevole solo di averci fatto sognare, ha meritato due colonne sul Corriere della Sera per farci sapere che, da quel momento in poi, lei con i suoi lunghi capelli biondi e lo sguardo seducente, sarebbe stata solo un ricordo.
I benpensanti scribacchini, dopo segrete notti insonni sui suoi VHS, si precipitarono a dire "Se l'è andata a cercare, quella poco di buono".
Un provocatore solitario tentò di guadagnarsi il suo quarto d'ora di giacobina celebrità sentenziando che Moana morì di un male che sarebbe potuto capitare anche a una suora. Che piccoli uomini.
Non rimanevano che le repliche di Tunnel su Rai3 con le affettuose imitazioni della Guzzanti.
Però, che vuoto. E neanche la consolazione di dividerlo con gli altri. Mica si può piangere una scostumata.
Adesso il marito scrive di averla aiutata a morire, e per dircelo pubblica un libro. Io spero solo che questo signore non voglia sfruttare l'onda lunga dell'eutanasia per vendere quattro copie in più.
Moana ha già pagato per le sue scelte.

(foto di Elena Somaré)

29 marzo 2007

John O'Brien, Via da Las Vegas.

Per la serie I migliori libri della mia vita (fino a qui), vorrei scrivere qualche riga su questo strano romanzo che mi ha accompagnato in più momenti della mia vita.

La prima cosa che colpisce è la biografia dell'autore, di certo non un tipo allegro. Immaginate un aspirante scrittore, a cui, dopo mille rifiuti, un editore pubblica un libro e una major di Hollywood acquista i diritti per farne un film. Bene: che cosa farà questo ragazzo? Organizzerà una festa con gli amici, comprerà un'auto di lusso o si concederà una vacanza?
Nulla di tutto ciò.
John O'Brien, dopo aver realizzato il suo sogno, il sogno di ogni giovane aspirante scrittore, si suicida.
Ecco: questo è l'autore di Via da Las Vegas.

Dimentichiamo per un attimo il film diretto da Mike Figgis (piano: le musiche -- jazz molto cool e fumoso -- scritte da Figgis sono indimenticabili. La performance di Nicholas "monoespressione" Cage un po' meno. Andiamo oltre) e rimaniamo sulle pagine di carta della bella edizione Feltrinelli.

Via da Las Vegas non ha speranza. Non ne ha un briciolo. Il titolo andrebbe cambiato in Via da Tutto. Perché il protagonista a Las Vegas ci va per bere fino a morire, deliberatamente. È una scelta: non è che finisce nel tunnel dell'alcolismo e prova a smettere. Macché. Vende le sue cose costose, si trasferisce in un motel sullo strip e vaga di bar in bar, perseguendo metodicamente il compito di distruggersi. Conosce una prostituta (che ne passa di tutti i colori), e fanno proprio una bella coppia: un ubriaco e una puttana, nella luce artificiale dei bar di Vegas o sotto il sole impietoso del deserto. Perché Vegas è questo: un giocattolone colorato e senza amore, buttato in mezzo a un deserto di sabbia, pietre, polvere. Lo sfondo perfetto.

Nessuna speranza, quindi. Né per i protagonisti né, sembra, per quel genere umano che si ostina a sfruttare i reietti e ad allontanarli quando non servono più, cercando di scacciarli dalla mente perché rappresentano la parte oscura di sé, quella che non si vuole accettare.

La storia finisce male, o benissimo, a seconda dei punti di vista e delle aspettative del lettore. Le mie, all'ultima pagina, erano pienamente soddisfatte. Le vostre non so.

John O'Brien non scriverà un altro libro, da dentro la sua cassa di pino. Ed è un bene -- che non ne scriva altri, non che sia defunto. Perché quando uno scrittore arriva così in alto, può solo scendere lentamente o precipitare.

John è rimasto in alto.

28 marzo 2007

Arrivederci, e buon lavoro.

Non so esattamente perché. Può darsi perché DD mi ha detto che la Stratocaster non è la chitarra per me, e che mi ci vuole una Les Paul. O forse perché la mia Strato me l'ero costruita con mesi di lavoro, imparando un sacco di cose e ricevendo pure complimenti da un liutaio di Firenze.

Una Strato un po' diversa, con tastiera full scalloped (come la Malmsteen) e 3 humbucker Seymour Duncan che suonano grossi grossi. Insomma, una cosa che non si vede tutti i giorni o nei negozi.

Ebbene, oggi l'ho venduta. A una persona che sembra averla capita e apprezzata per come l'avevo concepita e per come l'ho messa insieme. E questa è la cosa più importante: la suonerà, probabilmente più e meglio di me. La mia Strato avrà una seconda vita (quasi una terza, visto che alcuni pezzi erano usati) e vivrà nella musica di qualcuno. Questo mi fa felice, anche se me ne sto per separare.
Qui c'è l'album dei ricordi e qui (1 , 2 e 3) il fotoracconto del manico.

20 marzo 2007

Jay McInerney, Le mille luci di New York.

Per la serie I migliori libri della mia vita (fino a qui), oggi vorrei scrivere qualche appunto su un romanzo che letto e regalato e poi riletto. Si tratta de Le mille luci di New York (1984) * di Jay McInerney.

Tempo fa ne è stato tratto anche un film diretto da James Bridges che ha dato a Michael J. Fox il ruolo da protagonista. Non indimenticabile.

Ma torniamo al libro.
Jamie voleva fare lo scrittore e invece si accontenta di un lavoro da redattore in una rivista. Jamie ha amato una donna, una modella cresciuta in campagna a cui fa conoscere le bright lights di New York. Ma lei non gli rende la cortesia, e lo lascia solo. Così Jamie affoga il dolore nell'alcool e nella coca.

Trama banale? Può darsi. Quanti uomini persi in un bicchiere sono stati raccontati nella storia della letteratura? Tuttavia Le mille luci è un piccolo tesoro da scoprire pagina per pagina.
Innanzitutto, il registro narrativo. Gran parte delle riflessioni amare di Jamie sono scritte in seconda persona. Scorrendo l'apparentemente inarrestabile caudta verso il basso di questo brillante ragazzo di NY, mi sentivo coinvolto, protagonista, seduto su uno sgabello davanti all'ennesimo cocktail alle 3 del mattino, frustrato di un lavoro diverso dai miei sogni, disperato per l'abbandono di una donna che avevo amato e curato come un fiore e che, un bel mattino, se n'è volata via.

E di questo passo, in un crescendo di sconfitte e rivincite, notti agitate, donne e alcool, finché. Punto.
Sì, perché questo finché ha bisogno di uno spazio suo. Finché c'è una svolta. Finché scatta un meccanismo per cui bisogna risalire la china, a tutti i costi. Le mille luci è il racconto del ricominciare a vivere, del riprendere la propria esistenza tra le mani e dirsi pronti a ripartire da dove si era presa la strada sbagliata.

Le mille luci è stato un libro importante nella mia vita, nonostante le sue poche pagine e il film che l'ha superato in notorietà (ma non in qualità), perché in uno scaffale pieno di sconfitte e finali tragici, è sempre stato un piccolo, flebile raggio di luce.

Una speranza, se ci credi e se te la vuoi guadagnare, può esserci anche quando si toccato il fondo.

18 marzo 2007

SUN18.

Sto camminando lento in questa domenica sera di provincia. E' quasi lunedì.
M non importa.
Si alza un vento inusuale. Qui, di solito, non si muove foglia. Invece stasera è diverso. Le cartacce e i tovaglioli, di fronte alla gelateria, volteggiano in aria, poi cadono sull'asfalto. Poco distante, il vento solleva una polvere grigia, la stessa che copre i vetri delle auto parcheggiate.
L'ultima di luce: piatta, biancastra. Il buio avrebbe pietà di queste strade.
Una donna sola fuma seduta su una panchina. Il vento le posa una pagina di giornale sulla caviglia. Lei la scosta, getta la sigaretta, e se ne va.

D'improvviso, ho così tanti ricordi, proprio io, che dodici anni fa decisi di passare la spugna sul mio passato, e dimenticare tutto per trovarmi senza memoria, come se fossi appena nato.
Domenica era il titolo di un racconto, anzi, di una novella, come diceva l'autore. Quattro pagine così piene di disperazione da sembrare vere: i sogni non si avverano mai. Tutt'al più, non accade nulla, e la domenica si consuma. So, adesso, di aver aggiunto dolore a quella disperazione. Questo me lo ricordo.

Ma cos'è accaduto prima? Che cosa facevo prima di allora, come trascorrevo le domeniche, come arrivavo, ogni volta, ad un nuovo lunedì?
Ricordo certe domeniche d'autunno, passate a guidare la mia Vespa bianca per le strade di Genova, sentendo l'aria umida entrarmi nella giacca.
Ci sono volte in cui non riesco a spiegarmi come i miei passi sono potuti finire qui, sul sagrato di una chiesa fuori Torino ed io, naufrago in una terra senz'acqua, ad osservare famiglie che tornano a casa, auto parcheggiate, vecchi giornali.

Domenica. Guardo spesso l'orologio. Eppure non riesco a memorizzare l'ora. Vedo il datario che dice SUN18, con quel SUN in rosso, come a volermi ricordare che qualcuno, da qualche parte, sta festeggiando questo giorno. Non so che ore sono, ma si sta facendo sempre più buio.

Per strada, di fronte al mio portone, i ragazzi parlano a voce alta; le ragazze chiedono una sigaretta. Un'auto passa veloce, alzando un po' di polvere. Ma il vento è già cessato.

La porta che si chiude, lasciando fuori, nel buio della scala, gli ultimi brandelli di domenica.

16 marzo 2007

Chinese food.


Sono le nove passate e sono comodamente seduto su una sedia laccata di un ristorante cinese. Il ristorante è il Dong Hua, qualunque cosa voglia dire, in quel cesso di strada che è Corso San Maurizio, dove ho avuto la sfortuna di abitare per quasi tre anni.

Quando vivevo in centro, la gente mi diceva "Ah, bella Corso San Maurizio!", e siccome spesso erano torinesi, concludevo il discorso con un sorrisetto, senza ribattere, senza condividere il mio odio per quel luogo.Ma intanto nella mia testa mi immagino uno stormo di B52 pieni fino all'orlo di Napalm sorvolare la Vanchiglia e, al momento opportuno, trasformarla in un cumulo di macerie fumanti.

Non era nemmeno divertente giocare PartyCasino.it né rilassarsi o leggere libri. Torniamo al ristorante. Sto cercando di scorrere il menu, ma i discorsi di un tipo seduto a qualche metro da me mi distraggono. Il professorino è al tavolo con una ragazza, e parla, parla, parla senza sosta. L'ha portata al cinese in un penoso tentativo di etnico-a-basso-costo? Fa sfoggio di una cultura appicicaticcia da forse non tutti sanno che. Spara una cazzata dietro l'altra, senza sosta. Le spiega, fatto interessantissimo, che kompass viene dal russo non so cosa e signfica bussola, quell'arnese che segna il nord il sud l'est e l'ovest. Deficiente, la bussola segna solo il nord, gli altri punti li deduci. E poi che fai, lo racconti ad una ragazza? Guarda che non è scema: lo sa cos'è una bussola e a cosa serve. Vorrei alzarmi, avvicinarmi a lui, guardarlo fisso negli occhi e dirgli che se continua di questo passo, al massimo se la può scopare in sogno. Ma nn lo faccio. Voglio vedere fino a che punto è capace di arrivare.Poi la ragazza si alza, e mi passa accanto per raggiungere la toilette. Capisco molte cose.Primo. La ragazza è cinese, motivo per cui il professorino le parlava come si parla ad un'idiota.Secondo. Lui è un idiota. Porti una ragazza cinese in un mediocre ristorante cinese di Torino? Che cosa pernseresti se una ragazza americana ti portasse a mangiare una pizza da Sbarro?

Torno al mio menu. Io adoro i ristoranti cinesi. Sono tranquilli, economici e i camerieri sanno farsi i fatti propri. Sono i luoghi migliori dove rifugiarsi quando si è fatto qualcosa che non andrebbe fatto. Nessuno ti chiede nulla, mangi, paghi ed esci. Fine della transazione. La vita dovrebbe essere un grosso ristorante cinese, con i mobili laccati e il bagno pulito. Invece somiglia ad una mensa affollata e rumorosa.
Il menu. Mi accorgo che, nonostante gli sforzi profusi, tendo a ordinare gli stessi sei-sette piatti. Panino cinese al vapore, pollo con le mandorle, riso con i gamberi. Ci sono decine di pietanze di maiale, vitello e soia che non riescono a persuadermi. Nulla da fare. Prenderò il panino cinese e il solito pollo alle mandorle. Non ho voglia di farmi stupire. Il professorino ha ripreso a sfoggiare la sua erudizione da figlio di papà, la ragazza reprime uno sbadiglio. Il cameriere mi porta il mio pollo alle mandorle.

Va tutto bene.

14 marzo 2007

Ian McEwan, Il giardino di cemento.

Per la serie I migliori libri della mia vita (fino a qui), comincio con questo inquietante romanzo di McEwan.

Durante una torrida estate inglese, dato climatico che contribuisce a creare un'atmosfera pesante e morboso, quattro fratelli adolescenti che rimangono orfani: indifferenti alla morte del padre, pensano quindi di occultare il cadavere della madre, donna fragile e assente, in una colata di cemento.

La vita nella casa, sperduta in una squallida periferia, è ora affidata a Jack e Julie, i più cresciuti, che menano un'esistenza turbolenta e morbosa, dividendosi tra approcci incestuosi e atteggiamenti di sadismo, nell'indifferenza del mondo esterno. Un mondo, normalmente fatto di vicini, parenti, amici, istituzioni, che pare completamente assente o troppo impegnato per curarsi di quattro ragazzini allo sbando.
Il susseguirsi dei giorni è la ricerca empirica e dolorosa dell'identità sessuale, lo sfogo degli istinti in assenza di vincoli e costrizioni, la metafora dei rischi di una comunità senza regole.
Anziché cercare un aiuto dal mondo esterno, i ragazzi alzano un muro per difendersi da sguardi indiscreti.

Il giardino di cemento è una lettura ghiotta per gli affamati di atmosfere surreali e morbose: McEwan è ed è sempre stato bravissimo a descrivere lo stato d'animo e le fantasie dei bambino, anche quelle più recondite e spiazzanti. Il rapporto tra Jack e Julie sfocerà nell'incesto, mentre ai fratellini non lesinano giochi sadici e attenzioni pruriginose.

Eppure in questo libro non ci sono buoni né cattivi. Ci sono degli innocenti che, privi di qualunque guida morale e spirituale e senza limiti e regole, intraprendono un tortuoso percorso per definire la propria identità di ruolo e di genere, per fare conoscenza del proprio corpo, per sopravvivere.

Nel grande e desolato giardino di cemento, metafora dell'anomia del vivere contemporaneo, i ragazzini non commettono peccato né meritano condanne perché, lasciati soli, non sono in grado di distinguere il bene dal male, così come lo intendiamo secondo i canoni della morale cristiana o dell'autorità costituita.

06 marzo 2007

I migliori libri della mia vita.

[Aggiornamenti]:
            • Ho sostituito l'immagine a sinistra perché il proprietario mi ha piantato un casino che non finiva più. Per pudore, risparmio il link al suo blog.
            • Ho inserito altri titoli nella lista. Adesso ho la certezza che non scriverò mai TUTTE le recensioni.
L'inizio di questo post è quanto meno presuntuoso. A 32 anni e con una cultura medio bassa, ci vuole una bella faccia tosta a parlare dei libri di una vita o, peggio ancora, di una selezione di essi. Ringraziando il cielo non ho le carte in regola per fare il critico letterario o più semplicemente per disquisire di scrittura (che è una porzione della letteratura): guadagnerei ancora meno del mio già magro stipendio.

La realtà è molto più semplice. Vorrei tenere traccia e memorizzare le mie riflessioni su quei libri, soprattutto narrativa, ma anche saggistica e in misura minore poesia, che hanno avuto un ruolo nel formarmi come lettore. C'è il rischio di banalizzare l'intento e finire con un becero Quali sono i dieci libri che mi porterei su un'isola deserta? Posso evitarlo, se ce la metto tutta.

Libri, si diceva. Libri che mi hanno fatto bene e che sono finiti troppo presto o al punto giusto o come desideravo. Guarda che è una gran fortuna, quando va così.
Perché si dovrebbe scrivere un post a parte su tutti quei libri che, per la loro manifesta bruttezza o per la loro irrecuperabile inutilità, non avrei mai voluto leggere. Una vera perdita di tempo.

Ma torniamo a quelli buoni. Adesso, il compito più difficile. Abbozzare l'elenco dei libri e - ma qui siamo nella fantascienza - scrivere un post per ogni libro.

Sto divagando. Ho qualche incertezza.
Per qualche strano motivo mi stanno venendo in mente i libri inutili prima di quelli memorabili. Alcuni libri sono divenuti inutili nel tempo, ovvero mentre acquisivo consapevolezza dello scrivere e del leggere. Penso, ad esempio, a molte cose di Kerouac. Letto diciamo tra la terza e la quinta liceo, Kerouac mi sembrava illuminante. Ma già allora stavo mentendo a me stesso. Mentre avanzavo con fatica (avevo molto tempo) tra le pagine de I vagabondi del Dharma o La città e la metropoli, mi rendevo conto che quei testi non sarebbero stati per me, adolescente nato e cresciuto in Italia, un'occasione di arricchimento cognitivo e morale. Era l'America degli anni 50, e vivaddio c'era il vecchio Jack a raccontarcela, ma non avevo riferimenti nel mio vissuto quotidiano tali da potermi immedesimare nei personaggi e vivere la storia da dentro. Sulla strada, sì: mi fece sognare, mi commosse, mi mise addosso la voglia di viaggiare per il gusto di farlo. Ecco, Sulla strada sarà uno dei titoli. Troppo scontato? Può darsi.

Ecco, ho divagato ancora. Ho parlato non troppo bene di Kerouac che se mi sente la Pivano si infuria. Dovevo scrivere dei libri edificanti per il mio spirito e ho cominciato con le critiche.
La tentazione di mettere in mezzo Coelho e il suo imbarazzante campionario da piazzista della religione, è forte. Ma me ne guardo bene.

E allora, dopo molte, troppe divagazioni, forse riesco ad arrivare all'elenco dei titoli.
Rullo di tamburi.
L'ultima premessa, lo giuro, ma è necessaria. Anzi, sembrerebbero due:
  1. Nell'elencare i titoli non seguirò alcun ordine, né alfabetico né cronologico né affettivo. Casuale.
  2. Quando e se ci riuscirò, dei libri non scriverò sinossi o critiche intelligenti o approfondimenti sui personaggi, ma solo quello che mi ricordo.

I migliori libri della mia vita (fino a qui).
Seguono aggiornamenti.

Il simbolo *, bontà mia, è un link all'opera (fonti varie). Editore, ISBN e altre menate ve le cercate voi.
  • Harper Lee, Il buio oltre la siepe (1960) *
  • Ian McEwan, Il giardino di cemento (1978) *
  • John O'Brien, Via da Las Vegas (1990) *
  • Josephine Hart, Il danno (1999) *
  • Chaim Potok, La scelta di Reuven (1987) *
  • Jay McInerney, Le mille luci di New York (1984) *
  • Heinrich Böll, Opinioni di un clown (1963) *
  • Michel Houellebecq, Piattaforma (2003) *
  • Gunter Grass, Il tamburo di latta (1959) *
  • Kary Mullis, Ballando nudi nei campi della mente (2000) *
  • Jack Kerouac, Sulla strada (1951) *
  • Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo (1866) *
  • Joe R. Lansdale, Maneggiare con cura (2004) *
  • Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte, (1932) *
  • Charles Bukowski, Compagno di sbronze (1967) *
  • Jerome K. Jerome, Tre uomini in barca (1889) *
  • Pierpaolo Pasolini, Ragazzi di vita (1955) *
  • Lyman Frank Baum, Il mago di Oz (1900) * *
  • Beppe Fenoglio, La malora (1954) *
  • Woody Allen, Saperla lunga (1971) *
E' un elenco soddisfacente ed esaustivo? Nemmeno per idea. Eppure è troppo lungo, e sono quasi sicuro che non riuscirò a scrivere altrettanti articoli.

E ora come lo chiudo, questo post?

27 febbraio 2007

La macchina dell'uomo ragno.

Questa mattina mentre guidavo per andare in ufficio, osservavo un ragno che stava tessendo indisturbato una tela sul cruscotto della mia vecchia Ford.
Si calava da una parte all'altra della strumentazione, confondendosi con la lancetta del carburante. Quando decideva di essere sceso abbastanza, si arrampicava rapido ed iniziava da un altro punto. Aveva il ventre gonfio, credo che dovesse deporre le uova.
Così ho pensato: "Se ora mi pizzica, magari mi trasformo nell'Uomo Ragno e salvo il mondo dal suo crudele destino."
Invece l'aracnide ha continuato imperterrito a tessere la sua tela e a ispezionare la mia automobile.
Mentre parcheggiavo, si stava divertendo sul reset del contachilometri, come un criceto sulla ruota, ma un po' più piccolo.
Non ho salverò il mondo dal suo crudele destino. E probabilmente non l'avrei fatto nemmeno con i superpoteri. Mi sarei accontentato di cambiare canale lanciando una ragnatela contro il televisore.

16 febbraio 2007

E non succede nulla, se non l'assenza.

C'è un significato simbolico nell'arsura di questo inverno. Le strade e i marciapiedi e le auto coperti di polvere sembrano dire polvere eri e polvere ritornerai.

Respiro male, e sto dimagrendo. Nessuna crescita.

Vorrei poter scrivere che stanno succedendo molte cose, e che non riesco a capirle o a gestirle. E invece è solo una lunga attesa, che non passa mai e non porta niente, come i turni di guardia in caserma.

Si aspetta l'alba per riniziare la stessa giornata: prendere ordini, pulire, mangiare, dormire. Non un nemico da combattere, non un colpo da sparare.

Sto passando le mie giornate ad erigere difese e scavare trincee per combattere solo contro me stesso. Lo faccio di nascosto, perché nella mia vita ho maschere, doveri e ruoli: c'è un lavoro che va fatto, ci sono persone da salutare. Per ora il meccanismo funziona.
Polvere eri e polvere ritornerai.
Magari più tardi, grazie. Ho ancora gambe forti e quel briciolo di gratitudine verso la vita che mi fa pensare che poteva andare peggio, molto peggio.

Ad esempio, incontrare il fesso che dice se non succede nulla dipende da te e dalle tue azioni, la tua vita è nelle tue mani. Grazie al cielo, vado in macchina, e parlo di rado con la gente.

13 febbraio 2007

Il fratello del figliuol prodigo.

Era ancora giorno che finalmente la terra ha avuto la pioggia. La polvere per qualche ora cederà il posto a piccole pozze di fango. Le erbacce cresceranno forti tra il catrame, i kleenex e i muri delle fabbriche. Poi tornerà la terra secca, la polvere.

Io faccio fatica. Lo sto pensando spesso. Speravo di uscire sotto uno scroscio d'acqua, e invece le strade si stavano asciugando.
Avrei voluto un po' di acqua sulla mia testa.
Acqua sporca.
Fatica. Sì.

Tutti ne fanno, di fatica, e il giorno è duro per tutti, come mi ricordava tempo fa un tale a cui ho alleviato centinaia di giorni, e dato riposo la notte. Ma d'altronde, chi non sopporta l'ingratitudine non faccia del bene. Dovrei tacere. Ma detesto gli ingrati.

E il giorno era ancora più duro allora, quando mio padre e mia madre scappavano sulle colline, lontano dai bombardieri tedeschi.
Ma certo, è sempre stata dura. E' sempre stata più dura. Eppure.
Eppure me se sto chino, ogni sacrosanto giorno, a lavorare la terra - metaforicamente, sia detto - e a contare le ore che separano il sonno dalla veglia, e la veglia dal sonno. Me ne sto qui, esule, straniero, nemico. Non so più qual è la mia casa, la mia famiglia.

E' finito un altro giorno. Mi chiedo cosa mi rimane. Poco. Un pensiero, nemmeno bello: che a lavorare la terra in silenzio ci si guadagna, tutt'al più, il dolore alla schiena.

(Gwen Raverat, The prodigal son)

12 febbraio 2007

Ho sempre viaggiato solo, con fatica.

Non piove e non c'è vento, e la polvere rimane a terra. Ad ogni ruota che corre sull'asfalto in viaggio verso chissà dove, la polvere si alza, volteggia, si posa sui rifiuti e sulle erbacce, e ricade a terra. Come morta.

I miei giorni e le mie notti si susseguono con rapidità, tutti molto uguali, e mi lasciano poche, sconsolanti certezze. Io credo che arrivi un punto nella vita in cui si crea un baratro insuperabile tra il proprio presente e il proprio passato. E mentre fino a qualche tempo fa era facile saltare dall'uno all'altro e rivivere, anche se per poche ore, la mia vita (quasi) spensierata di figlio, di studente o di soldato, oggi (metafora temporale: diciamo da qualche tempo) questo salto non è più possibile, e la mia vecchia vita la posso vedere solo da lontano, come dal finestrino di un treno che si allontana.

Così si acquisiscono poche, dolorose consapevolezze: ho impiegato gli ultimi dieci anni per persuadermi che la vita è un viaggio che si intraprende soli o, meno frequentemente, in cattiva compagnia. In nessun caso e per nessun motivo posso sperare di contare su qualcuno, al di fuori di me stesso. Io, nella vita mia e in quella degli altri, sono un viaggiatore solitario, con il mio bagaglio leggero, e la testa bassa. Ho sempre viaggiato solo, con fatica.

Ieri notte, domenica notte. Si alza un po' di foschia sulle mie finestre. Le mie misere cose perdono i loro miseri contorni. Tanto meglio, penso.

Girandomi da fianco a fianco, ho due soli desideri da esprimere: riuscire a far sgorgare una lacrima da questi miei occhi aperti nell'oscurità, e che questo giorno, questo terribile giorno abbia fine.

La sorte, buona o cattiva che sia, mi nega il primo: è destino che da questo mio cuore di pietra non si cavi una goccia di sangue.

Il tempo segue il corso naturale, e si porta via queste ultime, scellerate ore che mi separano da un'altra alba, esaudendo il mio piccolo, povero, secondo desiderio.

05 febbraio 2007

Tornando a Genova.

Stavo scrivendo nel titolo Tornando a casa, come se continuassi ad associare Genova alla mia idea di casa, come se l'alloggio per cui pago un mutuo e litigo con la società dell'acqua potabile ancora non fosse casa mia. Poi ho scritto Tornando a Genova, forse è più discreto così. Casa.
E' venerdì sera e me ne sto qui, accovacciato su un sedile di un Intercity sporco come un diretto e costoso come un Eurostar, con La versione di Barney sulle ginocchia, seguendo il corso dei miei pensieri. Sto andando a casa, me ne sto andando da casa.

Mi accorgo di un'altra associazione di idee piuttosto ricorrente nella mia testa matta: se penso al passato, penso al '95-'96. Questi due anni, non pirma né dopo. Ho la consapevolezza che anche il 1993 o il 1982 appartengono al mio passato, ma li considero anni di passaggio, non di svolta. Dal 1995 ho cominciato a dare una svolta alla mia vita, sperimentando fin dove poteva arrivare non tanto il mio autolesionismo quanto la mia mancanza d'amor proprio - una mancanza d'amore che naufrangava nell'odio. Non posso stare a scrivere qui in che cosa la metà dei '90 era diversa da oggi. Posso solo dire né Internet né la Fluoxetina erano alla portata dei poveri cristi come me. Eppure si arrivava a fine giornata lo stesso.
Casa.

Mentre il treno si avvicina a Brignole, mi avvicino alla porta e mi dedico ad origliare i discorsi dei passeggeri. In uno scompartimento di donne sole (non di sole donne, si badi bene), una zitella piena di sé sta tenendo una lezione sul tema Come ho sconfitto l'emicrania trasferendomi a Casale Monferrato. La poveretta dice teatralmente di aver vissuto 7 anni a Genova e di aver sofferto, per ogni giorno che il Signore mandava sulla terra, di una terribile emicrania dovuta al vento. Proprio così. La vecchia zitella era ossessionata dal vento, e ora nella sua cascina di Casale ( 500 mq su 3 piani più 1000 m di giardino, informa la pettegola) trascorre un'esietnza felice e senza mal di testa. Vorrei avere un briciolo di coraggio per prenderla per il collo e dirle che il vento ripulisce l'aria, porta via le polveri sottili e le nuvole, alza la qualità della vita. Ma no, lasciamola marcire nella sua amata nebbia, e chi se ne frega.

Casa, dicevo. Ultimamente sento il peso degli anni. Non i quasi 32 anni sulla mia schiena, ma gli anni dei miei genitori. Quando si vive lontani da casa, il tempo perde il suo andamento lineare e si trasforma in una sequenza di eventi che si succedono ad intervalli non sempre regolari. Tra un evento e l'altro passano generalmente un numero sufficiente giorni perché mi accorga che il tempo ha lasciato qualche segno. Ovviamente, in questo film io sono solo uno spettatore in terza fila: osservo da seduto e, quando le luci si riaccendono, mi alzo ed esco dalla sala. Altro non posso fare.

Vorrei solo avere più tempo.

Ho divagato. Ho iniziato scrivendo di uno dei miei ritorni a casa, ma in realtà sono andato fuori tema. Non importa. Non c'è più una frustrata insegnante di lettere a mettermi un 4 sul foglio protocollo. Questa, anche questa, è casa mia.

03 maggio 2006

Il primo episodio dell'agente segreto Carmine Bellezza.


È arrivato questa mattina Ricordo perfettamente. Memorie di un funzionario, di Nino Vascon, autore che ho scoperto grazie a Golpitalia. God bless Ebay. Le notizie in rete sulle avventure dell'agente Carmine Bellezza sono molto poche. Credo che, letto anche questo volume, diventerò il massimo esperto su Vascon.

21 aprile 2006

Le particelle elementari.

Esce oggi per la regia di Oskar Roehler il film tratto dall'omonimo romanzo di Michel Houellebecq; concorre per l'Orso d'Oro alla festival del cinema di Berlino.
Le particelle, che ho letto dopo Piattaforma e prima di Estensione del dominio della lotta, è un libro a metà, non incompiuto ma nemmeno completamente realizzato nelle sue potenzialità. Forse non del tutto maturo. Un romanzo che non mi ha convinto del tutto né lasciato un segno profondo. La storia ruota intorno alle vicende personali -- tragiche come si addice ai personaggi houellebechiani -- di due fratellastri abbandonati dalla madre e intrappolati nelle loro esistenze, diversissime ma ugualmente disperate. Un raggio di luce -- l'arrivo nelle loro vite di una forma d'amore -- si rivelerà breve, fatuo e impotente di fronte alle tenebre esistenziali.
Nel romanzo non mancano molte scene di sesso che invece pare siano state tagliate ed edulcorate nel film.
Le particelle è la prima riduzione cinematografica dei lavori di Houellebecq e, personalmente, avrei preferito un altro titolo, come i più incisivi Estensione o Piattaforma. Probabilmente il secondo è stato scartato per le accuse di xenofobia mosse verso l'autore. Insomma, per sciogliere i dubbi l'unica soluzione è andare al cinema.
In rete, una bella recensione di Valentina Pieraccini e un articolo sul Corriere.

22 dicembre 2005

Tanti auguri nel cestino.


Sia chiaro: anche questo Natale, esattamente come lo scorso, cancellerò tutti gli SMS e tutte le e-mail di auguri preconfezionati che riceverò. Se credete di fare poca un bel gesto a scrivere una frase idiota e inviarla uguale a tutta la rubrica, con me risparmiatevelo pure.

14 dicembre 2005

Denti.


Ieri il dentista mi ha consegnato la mia nuova placca di svincolo detta altresì bite. Assomiglia al paradenti da pugile. Mi ricorda quando ero bambino e portavo l'apparecchio mobile, ma privo dei ferretti di sostegno.
Perché ho pensato bene di spendere quei 300 euro per farmi fare un disgustoso oggetto di resina che lascia la bocca indolenzita e riarsa quando lo levo al mattino? Perché durante la notte digrigno i denti. Digrigno rumorosamente e pericolosamente i denti. Quest'estate ho rotto l'angolo di un incisivo. E allora ecco il morso di plastica. Di notte consumo il bite e salvo i denti.
Secondo la psicanalisi freudiana, digrignare i denti durante il sonno -- al pari del rosicchiarsi le unghie -- è un meccanismo di repressione della propria aggressività.
La metafora è che i denti e le unghie sono tutto ciò che resta della nostra natura ferina e selvaggia, gli strumenti con cui un tempo i nostri antenati attaccavano, si difendevano, si procacciavano il cibo. Tutto questo prima dell'invenzione degli avvocati e degli ipermercati Auchan.
Così, distruggere inconsciamente queste armi equivale a tenere a bada quel che resta della nostra natura aggressiva. Certo, per sistemare una questione di parcheggi a Mirafiori sud c'è sempre il crick, ma tant'è.
Semplificando un po' le cose, sono tutti d'accordo nel sostenere che chi digrigna i denti scarica nel sonno -- momento incoscente -- frustrazioni e nervosismi. Allora il morso di resina è solo un tampone, un palliativo momentaneo, non la soluzione al problema. E' come l'airbag quando si va a sbattere contro un palo: riduce il danno ma non elimina la causa.

18 novembre 2005

Cascina Villafranca is back.

Dopo un periodo di pausa, la mia residenza settimese ha di nuovo avuto l'onore di ospitare per la notte l'amico Andrea in trasferta, troppo stanco per rimettersi in macchina. Un tempo era ospite fisso a Cascina San Maurizio, mia precedente residenza, mentre da un po' mancava all'appello da Cascina Villafranca.
E, per farsi perdonare una bottiglia di imbevibile cancarone portata in omaggio in occasione di un soggiorno torinese, ieri si è presentato con una confezione di cioccolatini di quelli buoni.