29 gennaio 2004

Spazio aereo.




Non ho paura di volare. Soffro solo lo schiacciamento dovuto alla spinta propulsiva al momento del decollo. Non è paura.

Molto più di un incidente aereo, che – come è noto – dura una manciata di secondi e non lascia superstiti né speranze, temo i ciccioni, gli obesi, i passeggeri sovrappeso.

Al checkin chiedo sempre Corridoio, grazie e cerco di salire tra i primi. Scannerizzo il corridoio centrale dell’A321 tentando di indovinare chi si siederà alla mia sinistra, quanto posto occuperà, quante volte mi farà alzare per prendere un libro o il giornale eccetera.

È il paradosso del volo: nell’immensità del cielo, la risorsa più scarsa è lo spazio.

Gli aeroporti dei Paesi Occidentali (Europa allargata, USA e Canada) sono il non-luogo con il maggior numero per metro quadrato di donne ritenute universalmente attraenti, ovvero, secondo la definizione di un famoso Ente di standardizzazione, …sane, in età fertile, con tratti fisico-somatici proporzionati e armoniosi, e abbigliate con decoro e gusto confacenti alla moda e ai modelli prevalenti nelle comunità sociali di appartenenza. La presente definizione esclude recisamente hippies, etniche, alternative ed emule delle Spice Girls.

Negli aeroporti, questo valore si attesta mediamente intorno allo 0.069, ovvero circa sette donne con i suesposti requisiti fisici in un’area di cento metri quadrati. Per esemplificare il dato, pensate di vivere in un bilocale insieme a quattro donne che vi portereste volentieri a letto. Notevole, no?

Nonostante la situazione favorevole, ho sempre viaggiato accanto a ciccioni rumorosi e maleodoranti. Eppure, ogni dannata volta in cui mi siedo su quelle poltrone, giro mentalmente il film in cui una donna bellissima si siede accanto a me, e immagino con precisione i piccoli rituali da inscenare (formule di cortesia, sorrisi, un’aria formale, distaccata ma disponibile) per rendere piacevoli i cinquanta minuti di volo e i venticinque di attesa per sbarcare.

Di solito il film prosegue con la insperata nascita di una reciproca simpatia, lo scambio dei numeri di telefono, e una cena romantica di due solitudini in viaggio in una città inospitale.
Poi ci sono i finali. Ne ho pronti una mezza dozzina, uno per genere cinematografico:
  • c’è il fantapolitico (lei in realtà è una bellissima spia del SISDE e nella sua ventiquattrore ci sono le lettere di Moro);
  • il noir (si svela una fitta serie di misteri, sparizioni, tradimenti e omicidi passionali da cui sta fuggendo);
  • il grottesco almodovariano (si spoglia, e scopro appena in tempo che tra le gambe siamo molto più uguali di quanto potessi immaginare);
  • l’horror (colto da un raptus, la uccido a mani nude e ne getto il cadavere in una discarica della Magliana);
  • il porno (si finisce invariabilmente a letto con dialoghi tipo Oh yeah babe); il fantascientifico (grattandosi il viso, si scopre la pelle verde e squamosa).
Sono ancora a metà delle riprese negli studios della mia fantasia, quando si avvicina una austera signora sui sessanta che mi comunica l’intenzione di sedersi alla mia sinistra. Si siede, inforca occhiali Armani e apre un report della Comunità Europea. Per tutto il viaggio resta immobile, silente, a rimirare tabelle e prospetti. Di tanto in tanto, gli occhiali le scivolano a metà naso, conferendole un'aria da direttrice scolastica.

Nel rollio percettibile della carlinga imparo a mie spese il confine tra sperare ed esprimere un desiderio.

22 gennaio 2004

Verso Caselle.




Sono le 18 di un mercoledì di novembre. Un taxi bianco, forse una Marea, forse una Opel, mi sta portando in aeroporto. Il tassista sbraita contro certi suoi colleghi, rei di portare abbigliamento indecoroso o di fumare durante le corse. Di tanto in tanto faccio un cenno del capo, giusto per dargli soddisfazione. Ci fermiamo a un semaforo. Sul marciapiede a fianco, una ragazza giovanissima attende clienti. È bionda, ha lineamenti duri e attraenti. Non ha un abbigliamento volgare o appariscente. Il contenuto della sua borsetta – due telefoni cellulari, spray antirapina non omologato in Italia, kleenex, preservativi, rossetto e un rotolo di biglietti da venti – tradisce la normalità delle sue vesti. Il taxi, borbottando, riparte. Mi giro. Subito, un cliente si ferma. Ha una 156 azzurra. Lei si china sul finestrino. Parlano.

In Via Reiss Romoli, alla periferia nord di Torino, c'è una grossa fabbrica di serramenti. Il proprietario dell'impresa, in un impeto di onnipotenza, ha fatto costruire una torretta alta una dozzina di metri che termina con la scritta, visibile a parecchia distanza e illuminata da faretti alogeni, Io sono il tuo serramento. Penso a una jihad tra la fazione illuminata del serramento in alluminio e gli oscurantisti della finestra tradizionale, in legno trattato con impregnante.

La corsa prosegue. Il tassista prova a fregarmi, e allunga un po’ il giro. Me ne accorgo, e non mi importa. Almeno vedo qualche scorcio nuovo.

Il fascino delle periferie è stato cantato, esaltato e lodato così tante volte da intellettuali e giornalisti comodamente sprofondati nelle loro poltrone di appartamenti in centro, che il mio animo è preso da una irrefrenabile pulsione di sincerità. È tutto falso. Le periferie non hanno alcun fascino. Le periferie fanno cagare, e basta. Ora sto meglio.

Semaforo. Una Lancia Y bianca affianca il mio taxi. Alla guida una ragazza. Piacevole, ben proporzionata. Direi studentessa, a occhio e croce. Intravedo sul sedile posteriore una pila di fotocopie rilegate e un’agenda Filofax. Bingo. Si accende una sigaretta, regola il volume della radio. Il suo piercing al naso, sollecitato dai fari delle auto che provengono in senso opposto, luccica nel buio dell’abitacolo. Gode della libertà impagabile di tutti gli studenti universitari. Immagino il suo ragazzo che va a trovarla a casa, dopocena. Brevi, rapidi convenevoli con la famiglia. Si chiudono in camera. Accendono lo stereo, un impianto hifi giapponese di fascia bassa, con diffusori in ABS.

Cercando di non fare troppo rumore, cominciano con un po’ di petting. Lei lo ferma quasi subito, dice ho le mie cose. Lui fa un sorriso, dice non ha importanza, ma non desiste. Lei capisce che cosa ha in mente. Pensa i ragazzi sono tutti uguali. In silenzio, diligente, comincia a sbottonargli i pantaloni.

Il semaforo diventa verde. Mi riprendo i miei pensieri mentre il taxi avanza nel traffico, fino alla meta.

L’aeroporto di Torino Caselle è dedicato a Sandro Pertini – che, per quanto ne so, non ha avuto particolari meriti nella storia dell’aviazione. Le impiegate ai banchi accettazione di Alitalia, British Airways e Lufthansa (completo giacca pantalone austero, tacchi non alti ma eleganti, trucco impeccabile anche alle dieci di sera, immancabile foulard di seta al collo) compensano a malapena la visione d’insieme di questo squallido aeroporto in cui i cartelloni pubblicitari hanno una vita superiore ai prodotti e alle aziende che pubblicizzano.

Per effettuare il checkin, scelgo sempre l’impiegata più attraente, anche se devo fare più coda. Ho rischiato di perdere più di un volo, per questo.

Arriva il mio turno. Sono gentile, manierato, formale, do sempre del lei. Dico Buonasera, signora. Dopo schiere di frettolosi e ineducati passeggeri che gettano sul bancone biglietto e fidelity card senza smettere di parlare al cellulare, cerco di essere un uomo d’altri tempi, fino a strappare a queste mistress del traffico aereo un sorriso complice, talvolta sensuale. Non si può costruire una conoscenza carnale in meno di cinque minuti, ma l’imperativo etico che mi sta a cuore è avvicinarmi il più possibile ad essa.

Nel brusio di fondo annunciano il ritardo del mio volo. Rigiro tra le mani la carta di imbarco, e mi domando quanto saranno ingombranti e rumorosi i miei vicini di poltrona.
Una hostess, passando, si sistema una calza scoprendo la gamba fino a metà coscia.