Il viaggio. Li conosco anche troppo bene, i miei venerdì, fermo immobile imbottigliato sull'autostrada dopo 100 km a rotta di collo di sorpassi tra autocarri, cantieri aperti e rottami di automobili, e le mani che sudano per la tensione. Spesso, quasi sempre, l'ambulanza porta via qualcuno a pochi metri dalla mia auto. Qualche volta non deve nemmeno accendere la sirena. Quando mi ricordo, mi faccio il segno della croce. C'è sempre qualcuno che sta peggio, eh?
Dopo una settimana che finisce sempre con qualche intoppo, arrivo a Genova tardi, troppo stanco per qualcosa di meglio che una cena veloce e una doccia.
La città. Eccoci, e tutti dicono che è meravigliosa. Grazie, lo so, ci sono nato e cresciuto. Lo volete insegnare a
me, che sono stato una delle sue voci più forti? No, se mai ve lo posso insegnare io. Eppure, se mi chiedete se ne sono convinto, vacillo. E' pur sempre una città nelle mani delle solite dieci (dico per dire: saranno venti) famiglie che contano, che sistemano i figli e i nipoti, che decidono i matrimoni e i titoli del giornale. I marciapiedi fanno schifo, i punkabbestia si bucano nei vicoli, gli sbirri parlano alla radio, le signore parcheggiano SUV in doppia fila. Non cambia nulla, mai. Genova meravigliosa? Ma per carità. E' il solito vecchio troiaio puzzolente dove affondano le solite mani sporche, e sarà così anche domani. Ma per me essere genovese è come essere il padrone di un vecchio randagio pulcioso: c'è ben poco da esserne fieri, tutt'al più, affezionati. Anzi: abituati.
La mia famiglia. Me ne sono andato di casa quando avevo venticinque anni. Prima di allora ho vissuto ogni giorno a contatto con i miei genitori, crescendo con loro e grazie a loro. Adesso li vedo ad intermittenza, ad intervalli di due-tre settimane, a volte più di un mese. Mi devo rassegnare di fronte all'ineluttabilità del tempo che trascorre sempre più in fretta. Vado a Genova per stare con i miei genitori, ma il tempo è dolore: il tempo su di loro, sempre troppo; il tempo di cui posso disporre, sempre troppo poco. Vorrei più tempo, più luce, la possibilità di fermare la corsa, di avere meno affanno. Niente. Le cose stanno così. Ho fatto la mia scelta, e devo trovare la forza necessaria per portarle avanti.
Gli amici. Me ne sono andato da Genova troppo tardi per rifarmi degli amici a Torino: voglio dire, quelli con cui ti passi i compiti a scuola o giochi a
torello ai giardini quando hai sette anni, un pallone
Tango e la tuta comprata al mercato di Piazza Palermo. Sono io quello che se n'è andato, naufrago volontario o esule, fate un po' voi. Ma mi devo rassegnare: la mia casa è ormai altrove e se voglio contare su qualcuno, quel qualcuno devo essere io. Aggiungo: non sono in buone mani. Ma non ho grandi alternative, perché ognuno ha la propria vita e non si può più tornare indietro di vent'anni per trovarsi ancora su un muretto a sparare stucco con una cerbottana di alluminio.
Conclusione. C'è poco da concludere. Dovrei essere così bravo da tagliare questa corda marcia d'acqua che mi tiene ancorato a Genova, e salvare dentro di me i bei ricordi e l'infanzia felice che ho avuto, senza aspettarmi niente da nessuno. Da troppi anni me ne sto con il coltello tra i denti, appostato nel buio della mia vita, senza saper compiere questo gesto. Così, niente conclusione. Prima o dopo, ci sarà un'altra discesa a rotta di collo, nuove aspettative deluse, ancora fatica su fatica. E mai una risposta a questo dannato
Perché?
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