Adesso vorrei vedere qualche firma raccolta anche per gli altri due, uno in mano ai servizi afgani e l'altro ai talebani.
(foto Ansa)
20 marzo 2007
Jay McInerney, Le mille luci di New York.
Per la serie I migliori libri della mia vita (fino a qui), oggi vorrei scrivere qualche appunto su un romanzo che letto e regalato e poi riletto. Si tratta de Le mille luci di New York (1984) * di Jay McInerney.
Tempo fa ne è stato tratto anche un film diretto da James Bridges che ha dato a Michael J. Fox il ruolo da protagonista. Non indimenticabile.
Ma torniamo al libro.
Jamie voleva fare lo scrittore e invece si accontenta di un lavoro da redattore in una rivista. Jamie ha amato una donna, una modella cresciuta in campagna a cui fa conoscere le bright lights di New York. Ma lei non gli rende la cortesia, e lo lascia solo. Così Jamie affoga il dolore nell'alcool e nella coca.
Trama banale? Può darsi. Quanti uomini persi in un bicchiere sono stati raccontati nella storia della letteratura? Tuttavia Le mille luci è un piccolo tesoro da scoprire pagina per pagina.
Innanzitutto, il registro narrativo. Gran parte delle riflessioni amare di Jamie sono scritte in seconda persona. Scorrendo l'apparentemente inarrestabile caudta verso il basso di questo brillante ragazzo di NY, mi sentivo coinvolto, protagonista, seduto su uno sgabello davanti all'ennesimo cocktail alle 3 del mattino, frustrato di un lavoro diverso dai miei sogni, disperato per l'abbandono di una donna che avevo amato e curato come un fiore e che, un bel mattino, se n'è volata via.
E di questo passo, in un crescendo di sconfitte e rivincite, notti agitate, donne e alcool, finché. Punto.
Sì, perché questo finché ha bisogno di uno spazio suo. Finché c'è una svolta. Finché scatta un meccanismo per cui bisogna risalire la china, a tutti i costi. Le mille luci è il racconto del ricominciare a vivere, del riprendere la propria esistenza tra le mani e dirsi pronti a ripartire da dove si era presa la strada sbagliata.
Le mille luci è stato un libro importante nella mia vita, nonostante le sue poche pagine e il film che l'ha superato in notorietà (ma non in qualità), perché in uno scaffale pieno di sconfitte e finali tragici, è sempre stato un piccolo, flebile raggio di luce.
Una speranza, se ci credi e se te la vuoi guadagnare, può esserci anche quando si toccato il fondo.
Tempo fa ne è stato tratto anche un film diretto da James Bridges che ha dato a Michael J. Fox il ruolo da protagonista. Non indimenticabile.
Ma torniamo al libro.
Jamie voleva fare lo scrittore e invece si accontenta di un lavoro da redattore in una rivista. Jamie ha amato una donna, una modella cresciuta in campagna a cui fa conoscere le bright lights di New York. Ma lei non gli rende la cortesia, e lo lascia solo. Così Jamie affoga il dolore nell'alcool e nella coca.
Trama banale? Può darsi. Quanti uomini persi in un bicchiere sono stati raccontati nella storia della letteratura? Tuttavia Le mille luci è un piccolo tesoro da scoprire pagina per pagina.
Innanzitutto, il registro narrativo. Gran parte delle riflessioni amare di Jamie sono scritte in seconda persona. Scorrendo l'apparentemente inarrestabile caudta verso il basso di questo brillante ragazzo di NY, mi sentivo coinvolto, protagonista, seduto su uno sgabello davanti all'ennesimo cocktail alle 3 del mattino, frustrato di un lavoro diverso dai miei sogni, disperato per l'abbandono di una donna che avevo amato e curato come un fiore e che, un bel mattino, se n'è volata via.
E di questo passo, in un crescendo di sconfitte e rivincite, notti agitate, donne e alcool, finché. Punto.
Sì, perché questo finché ha bisogno di uno spazio suo. Finché c'è una svolta. Finché scatta un meccanismo per cui bisogna risalire la china, a tutti i costi. Le mille luci è il racconto del ricominciare a vivere, del riprendere la propria esistenza tra le mani e dirsi pronti a ripartire da dove si era presa la strada sbagliata.
Le mille luci è stato un libro importante nella mia vita, nonostante le sue poche pagine e il film che l'ha superato in notorietà (ma non in qualità), perché in uno scaffale pieno di sconfitte e finali tragici, è sempre stato un piccolo, flebile raggio di luce.
Una speranza, se ci credi e se te la vuoi guadagnare, può esserci anche quando si toccato il fondo.
19 marzo 2007
Joost in time.
I ragazzi di Joost mi scrivono di stare tranquillo, che non si sono scordati di me
"...expect an invite within the next couple of weeks - in the meantime, thanks for
bearing with us - we appreciate it."
18 marzo 2007
SUN18.
Sto camminando lento in questa domenica sera di provincia. E' quasi lunedì.
M non importa.
Si alza un vento inusuale. Qui, di solito, non si muove foglia. Invece stasera è diverso. Le cartacce e i tovaglioli, di fronte alla gelateria, volteggiano in aria, poi cadono sull'asfalto. Poco distante, il vento solleva una polvere grigia, la stessa che copre i vetri delle auto parcheggiate.
L'ultima di luce: piatta, biancastra. Il buio avrebbe pietà di queste strade.
Una donna sola fuma seduta su una panchina. Il vento le posa una pagina di giornale sulla caviglia. Lei la scosta, getta la sigaretta, e se ne va.
D'improvviso, ho così tanti ricordi, proprio io, che dodici anni fa decisi di passare la spugna sul mio passato, e dimenticare tutto per trovarmi senza memoria, come se fossi appena nato.
Domenica era il titolo di un racconto, anzi, di una novella, come diceva l'autore. Quattro pagine così piene di disperazione da sembrare vere: i sogni non si avverano mai. Tutt'al più, non accade nulla, e la domenica si consuma. So, adesso, di aver aggiunto dolore a quella disperazione. Questo me lo ricordo.
Ma cos'è accaduto prima? Che cosa facevo prima di allora, come trascorrevo le domeniche, come arrivavo, ogni volta, ad un nuovo lunedì?
Ricordo certe domeniche d'autunno, passate a guidare la mia Vespa bianca per le strade di Genova, sentendo l'aria umida entrarmi nella giacca.
Ci sono volte in cui non riesco a spiegarmi come i miei passi sono potuti finire qui, sul sagrato di una chiesa fuori Torino ed io, naufrago in una terra senz'acqua, ad osservare famiglie che tornano a casa, auto parcheggiate, vecchi giornali.
Domenica. Guardo spesso l'orologio. Eppure non riesco a memorizzare l'ora. Vedo il datario che dice SUN18, con quel SUN in rosso, come a volermi ricordare che qualcuno, da qualche parte, sta festeggiando questo giorno. Non so che ore sono, ma si sta facendo sempre più buio.
Per strada, di fronte al mio portone, i ragazzi parlano a voce alta; le ragazze chiedono una sigaretta. Un'auto passa veloce, alzando un po' di polvere. Ma il vento è già cessato.
La porta che si chiude, lasciando fuori, nel buio della scala, gli ultimi brandelli di domenica.
M non importa.
Si alza un vento inusuale. Qui, di solito, non si muove foglia. Invece stasera è diverso. Le cartacce e i tovaglioli, di fronte alla gelateria, volteggiano in aria, poi cadono sull'asfalto. Poco distante, il vento solleva una polvere grigia, la stessa che copre i vetri delle auto parcheggiate.
L'ultima di luce: piatta, biancastra. Il buio avrebbe pietà di queste strade.
Una donna sola fuma seduta su una panchina. Il vento le posa una pagina di giornale sulla caviglia. Lei la scosta, getta la sigaretta, e se ne va.
D'improvviso, ho così tanti ricordi, proprio io, che dodici anni fa decisi di passare la spugna sul mio passato, e dimenticare tutto per trovarmi senza memoria, come se fossi appena nato.
Domenica era il titolo di un racconto, anzi, di una novella, come diceva l'autore. Quattro pagine così piene di disperazione da sembrare vere: i sogni non si avverano mai. Tutt'al più, non accade nulla, e la domenica si consuma. So, adesso, di aver aggiunto dolore a quella disperazione. Questo me lo ricordo.
Ma cos'è accaduto prima? Che cosa facevo prima di allora, come trascorrevo le domeniche, come arrivavo, ogni volta, ad un nuovo lunedì?
Ricordo certe domeniche d'autunno, passate a guidare la mia Vespa bianca per le strade di Genova, sentendo l'aria umida entrarmi nella giacca.
Ci sono volte in cui non riesco a spiegarmi come i miei passi sono potuti finire qui, sul sagrato di una chiesa fuori Torino ed io, naufrago in una terra senz'acqua, ad osservare famiglie che tornano a casa, auto parcheggiate, vecchi giornali.
Domenica. Guardo spesso l'orologio. Eppure non riesco a memorizzare l'ora. Vedo il datario che dice SUN18, con quel SUN in rosso, come a volermi ricordare che qualcuno, da qualche parte, sta festeggiando questo giorno. Non so che ore sono, ma si sta facendo sempre più buio.
Per strada, di fronte al mio portone, i ragazzi parlano a voce alta; le ragazze chiedono una sigaretta. Un'auto passa veloce, alzando un po' di polvere. Ma il vento è già cessato.
La porta che si chiude, lasciando fuori, nel buio della scala, gli ultimi brandelli di domenica.
16 marzo 2007
Chinese food.
Sono le nove passate e sono comodamente seduto su una sedia laccata di un ristorante cinese. Il ristorante è il Dong Hua, qualunque cosa voglia dire, in quel cesso di strada che è Corso San Maurizio, dove ho avuto la sfortuna di abitare per quasi tre anni.
Quando vivevo in centro, la gente mi diceva "Ah, bella Corso San Maurizio!", e siccome spesso erano torinesi, concludevo il discorso con un sorrisetto, senza ribattere, senza condividere il mio odio per quel luogo.Ma intanto nella mia testa mi immagino uno stormo di B52 pieni fino all'orlo di Napalm sorvolare la Vanchiglia e, al momento opportuno, trasformarla in un cumulo di macerie fumanti.
Non era nemmeno divertente giocare PartyCasino.it né rilassarsi o leggere libri. Torniamo al ristorante. Sto cercando di scorrere il menu, ma i discorsi di un tipo seduto a qualche metro da me mi distraggono. Il professorino è al tavolo con una ragazza, e parla, parla, parla senza sosta. L'ha portata al cinese in un penoso tentativo di etnico-a-basso-costo? Fa sfoggio di una cultura appicicaticcia da forse non tutti sanno che. Spara una cazzata dietro l'altra, senza sosta. Le spiega, fatto interessantissimo, che kompass viene dal russo non so cosa e signfica bussola, quell'arnese che segna il nord il sud l'est e l'ovest. Deficiente, la bussola segna solo il nord, gli altri punti li deduci. E poi che fai, lo racconti ad una ragazza? Guarda che non è scema: lo sa cos'è una bussola e a cosa serve. Vorrei alzarmi, avvicinarmi a lui, guardarlo fisso negli occhi e dirgli che se continua di questo passo, al massimo se la può scopare in sogno. Ma nn lo faccio. Voglio vedere fino a che punto è capace di arrivare.Poi la ragazza si alza, e mi passa accanto per raggiungere la toilette. Capisco molte cose.Primo. La ragazza è cinese, motivo per cui il professorino le parlava come si parla ad un'idiota.Secondo. Lui è un idiota. Porti una ragazza cinese in un mediocre ristorante cinese di Torino? Che cosa pernseresti se una ragazza americana ti portasse a mangiare una pizza da Sbarro?
Torno al mio menu. Io adoro i ristoranti cinesi. Sono tranquilli, economici e i camerieri sanno farsi i fatti propri. Sono i luoghi migliori dove rifugiarsi quando si è fatto qualcosa che non andrebbe fatto. Nessuno ti chiede nulla, mangi, paghi ed esci. Fine della transazione. La vita dovrebbe essere un grosso ristorante cinese, con i mobili laccati e il bagno pulito. Invece somiglia ad una mensa affollata e rumorosa.
Il menu. Mi accorgo che, nonostante gli sforzi profusi, tendo a ordinare gli stessi sei-sette piatti. Panino cinese al vapore, pollo con le mandorle, riso con i gamberi. Ci sono decine di pietanze di maiale, vitello e soia che non riescono a persuadermi. Nulla da fare. Prenderò il panino cinese e il solito pollo alle mandorle. Non ho voglia di farmi stupire. Il professorino ha ripreso a sfoggiare la sua erudizione da figlio di papà, la ragazza reprime uno sbadiglio. Il cameriere mi porta il mio pollo alle mandorle.
Va tutto bene.
Quando vivevo in centro, la gente mi diceva "Ah, bella Corso San Maurizio!", e siccome spesso erano torinesi, concludevo il discorso con un sorrisetto, senza ribattere, senza condividere il mio odio per quel luogo.Ma intanto nella mia testa mi immagino uno stormo di B52 pieni fino all'orlo di Napalm sorvolare la Vanchiglia e, al momento opportuno, trasformarla in un cumulo di macerie fumanti.
Non era nemmeno divertente giocare PartyCasino.it né rilassarsi o leggere libri. Torniamo al ristorante. Sto cercando di scorrere il menu, ma i discorsi di un tipo seduto a qualche metro da me mi distraggono. Il professorino è al tavolo con una ragazza, e parla, parla, parla senza sosta. L'ha portata al cinese in un penoso tentativo di etnico-a-basso-costo? Fa sfoggio di una cultura appicicaticcia da forse non tutti sanno che. Spara una cazzata dietro l'altra, senza sosta. Le spiega, fatto interessantissimo, che kompass viene dal russo non so cosa e signfica bussola, quell'arnese che segna il nord il sud l'est e l'ovest. Deficiente, la bussola segna solo il nord, gli altri punti li deduci. E poi che fai, lo racconti ad una ragazza? Guarda che non è scema: lo sa cos'è una bussola e a cosa serve. Vorrei alzarmi, avvicinarmi a lui, guardarlo fisso negli occhi e dirgli che se continua di questo passo, al massimo se la può scopare in sogno. Ma nn lo faccio. Voglio vedere fino a che punto è capace di arrivare.Poi la ragazza si alza, e mi passa accanto per raggiungere la toilette. Capisco molte cose.Primo. La ragazza è cinese, motivo per cui il professorino le parlava come si parla ad un'idiota.Secondo. Lui è un idiota. Porti una ragazza cinese in un mediocre ristorante cinese di Torino? Che cosa pernseresti se una ragazza americana ti portasse a mangiare una pizza da Sbarro?
Torno al mio menu. Io adoro i ristoranti cinesi. Sono tranquilli, economici e i camerieri sanno farsi i fatti propri. Sono i luoghi migliori dove rifugiarsi quando si è fatto qualcosa che non andrebbe fatto. Nessuno ti chiede nulla, mangi, paghi ed esci. Fine della transazione. La vita dovrebbe essere un grosso ristorante cinese, con i mobili laccati e il bagno pulito. Invece somiglia ad una mensa affollata e rumorosa.
Il menu. Mi accorgo che, nonostante gli sforzi profusi, tendo a ordinare gli stessi sei-sette piatti. Panino cinese al vapore, pollo con le mandorle, riso con i gamberi. Ci sono decine di pietanze di maiale, vitello e soia che non riescono a persuadermi. Nulla da fare. Prenderò il panino cinese e il solito pollo alle mandorle. Non ho voglia di farmi stupire. Il professorino ha ripreso a sfoggiare la sua erudizione da figlio di papà, la ragazza reprime uno sbadiglio. Il cameriere mi porta il mio pollo alle mandorle.
Va tutto bene.
14 marzo 2007
Ian McEwan, Il giardino di cemento.
Per la serie I migliori libri della mia vita (fino a qui), comincio con questo inquietante romanzo di McEwan.
Durante una torrida estate inglese, dato climatico che contribuisce a creare un'atmosfera pesante e morboso, quattro fratelli adolescenti che rimangono orfani: indifferenti alla morte del padre, pensano quindi di occultare il cadavere della madre, donna fragile e assente, in una colata di cemento.
La vita nella casa, sperduta in una squallida periferia, è ora affidata a Jack e Julie, i più cresciuti, che menano un'esistenza turbolenta e morbosa, dividendosi tra approcci incestuosi e atteggiamenti di sadismo, nell'indifferenza del mondo esterno. Un mondo, normalmente fatto di vicini, parenti, amici, istituzioni, che pare completamente assente o troppo impegnato per curarsi di quattro ragazzini allo sbando.
Il susseguirsi dei giorni è la ricerca empirica e dolorosa dell'identità sessuale, lo sfogo degli istinti in assenza di vincoli e costrizioni, la metafora dei rischi di una comunità senza regole.
Anziché cercare un aiuto dal mondo esterno, i ragazzi alzano un muro per difendersi da sguardi indiscreti.
Il giardino di cemento è una lettura ghiotta per gli affamati di atmosfere surreali e morbose: McEwan è ed è sempre stato bravissimo a descrivere lo stato d'animo e le fantasie dei bambino, anche quelle più recondite e spiazzanti. Il rapporto tra Jack e Julie sfocerà nell'incesto, mentre ai fratellini non lesinano giochi sadici e attenzioni pruriginose.
Eppure in questo libro non ci sono buoni né cattivi. Ci sono degli innocenti che, privi di qualunque guida morale e spirituale e senza limiti e regole, intraprendono un tortuoso percorso per definire la propria identità di ruolo e di genere, per fare conoscenza del proprio corpo, per sopravvivere.
Nel grande e desolato giardino di cemento, metafora dell'anomia del vivere contemporaneo, i ragazzini non commettono peccato né meritano condanne perché, lasciati soli, non sono in grado di distinguere il bene dal male, così come lo intendiamo secondo i canoni della morale cristiana o dell'autorità costituita.
Durante una torrida estate inglese, dato climatico che contribuisce a creare un'atmosfera pesante e morboso, quattro fratelli adolescenti che rimangono orfani: indifferenti alla morte del padre, pensano quindi di occultare il cadavere della madre, donna fragile e assente, in una colata di cemento.
La vita nella casa, sperduta in una squallida periferia, è ora affidata a Jack e Julie, i più cresciuti, che menano un'esistenza turbolenta e morbosa, dividendosi tra approcci incestuosi e atteggiamenti di sadismo, nell'indifferenza del mondo esterno. Un mondo, normalmente fatto di vicini, parenti, amici, istituzioni, che pare completamente assente o troppo impegnato per curarsi di quattro ragazzini allo sbando.
Il susseguirsi dei giorni è la ricerca empirica e dolorosa dell'identità sessuale, lo sfogo degli istinti in assenza di vincoli e costrizioni, la metafora dei rischi di una comunità senza regole.
Anziché cercare un aiuto dal mondo esterno, i ragazzi alzano un muro per difendersi da sguardi indiscreti.
Il giardino di cemento è una lettura ghiotta per gli affamati di atmosfere surreali e morbose: McEwan è ed è sempre stato bravissimo a descrivere lo stato d'animo e le fantasie dei bambino, anche quelle più recondite e spiazzanti. Il rapporto tra Jack e Julie sfocerà nell'incesto, mentre ai fratellini non lesinano giochi sadici e attenzioni pruriginose.
Eppure in questo libro non ci sono buoni né cattivi. Ci sono degli innocenti che, privi di qualunque guida morale e spirituale e senza limiti e regole, intraprendono un tortuoso percorso per definire la propria identità di ruolo e di genere, per fare conoscenza del proprio corpo, per sopravvivere.
Nel grande e desolato giardino di cemento, metafora dell'anomia del vivere contemporaneo, i ragazzini non commettono peccato né meritano condanne perché, lasciati soli, non sono in grado di distinguere il bene dal male, così come lo intendiamo secondo i canoni della morale cristiana o dell'autorità costituita.
Dagli alla Telecom.
Perché Repubblica, sempre solerte a dare addosso a Telecom Italia, non spreca una riga una per scrivere che, a volte, anche il grande nemico è oggetto di truffe (e non da poco)?
Non è che a prendere le parti del padrone io abbia da guadagnarci qualcosa. E' solo che non mi piace questo continuo e sfacciato doppiopesismo del quotidiano romano che, ormai è chiaro, ha rinunciato a dare informazioni e cerca solo di screditare un'azienda (che ha le sue colpe, sia chiaro).
Ma non bastavano le vaccate del giullare di Sant'Ilario? (Un inciso. Prima di fare il paladino della class action, almeno una volta nella vita, prova a lavorare.)
Non è che a prendere le parti del padrone io abbia da guadagnarci qualcosa. E' solo che non mi piace questo continuo e sfacciato doppiopesismo del quotidiano romano che, ormai è chiaro, ha rinunciato a dare informazioni e cerca solo di screditare un'azienda (che ha le sue colpe, sia chiaro).
Ma non bastavano le vaccate del giullare di Sant'Ilario? (Un inciso. Prima di fare il paladino della class action, almeno una volta nella vita, prova a lavorare.)
13 marzo 2007
Telecomfuori.
Gli svizzeri comprano Fastweb; i russi mettono gli occhi su Telecom Italia. Omnitel ce la siamo già venduta. Le banche pure. Per fortuna che Montezemolo punta sul made in Italy.
Magari se mettiamo Andreotti su Ebay qualcuno si compra anche quello.
No, eh?
Magari se mettiamo Andreotti su Ebay qualcuno si compra anche quello.
No, eh?
12 marzo 2007
Buchi.
06 marzo 2007
I migliori libri della mia vita.
[Aggiornamenti]:
La realtà è molto più semplice. Vorrei tenere traccia e memorizzare le mie riflessioni su quei libri, soprattutto narrativa, ma anche saggistica e in misura minore poesia, che hanno avuto un ruolo nel formarmi come lettore. C'è il rischio di banalizzare l'intento e finire con un becero Quali sono i dieci libri che mi porterei su un'isola deserta? Posso evitarlo, se ce la metto tutta.
Libri, si diceva. Libri che mi hanno fatto bene e che sono finiti troppo presto o al punto giusto o come desideravo. Guarda che è una gran fortuna, quando va così.
Perché si dovrebbe scrivere un post a parte su tutti quei libri che, per la loro manifesta bruttezza o per la loro irrecuperabile inutilità, non avrei mai voluto leggere. Una vera perdita di tempo.
Ma torniamo a quelli buoni. Adesso, il compito più difficile. Abbozzare l'elenco dei libri e - ma qui siamo nella fantascienza - scrivere un post per ogni libro.
Sto divagando. Ho qualche incertezza.
Per qualche strano motivo mi stanno venendo in mente i libri inutili prima di quelli memorabili. Alcuni libri sono divenuti inutili nel tempo, ovvero mentre acquisivo consapevolezza dello scrivere e del leggere. Penso, ad esempio, a molte cose di Kerouac. Letto diciamo tra la terza e la quinta liceo, Kerouac mi sembrava illuminante. Ma già allora stavo mentendo a me stesso. Mentre avanzavo con fatica (avevo molto tempo) tra le pagine de I vagabondi del Dharma o La città e la metropoli, mi rendevo conto che quei testi non sarebbero stati per me, adolescente nato e cresciuto in Italia, un'occasione di arricchimento cognitivo e morale. Era l'America degli anni 50, e vivaddio c'era il vecchio Jack a raccontarcela, ma non avevo riferimenti nel mio vissuto quotidiano tali da potermi immedesimare nei personaggi e vivere la storia da dentro. Sulla strada, sì: mi fece sognare, mi commosse, mi mise addosso la voglia di viaggiare per il gusto di farlo. Ecco, Sulla strada sarà uno dei titoli. Troppo scontato? Può darsi.
Ecco, ho divagato ancora. Ho parlato non troppo bene di Kerouac che se mi sente la Pivano si infuria. Dovevo scrivere dei libri edificanti per il mio spirito e ho cominciato con le critiche.
La tentazione di mettere in mezzo Coelho e il suo imbarazzante campionario da piazzista della religione, è forte. Ma me ne guardo bene.
E allora, dopo molte, troppe divagazioni, forse riesco ad arrivare all'elenco dei titoli.
Rullo di tamburi.
L'ultima premessa, lo giuro, ma è necessaria. Anzi, sembrerebbero due:
Il simbolo *, bontà mia, è un link all'opera (fonti varie). Editore, ISBN e altre menate ve le cercate voi.
E ora come lo chiudo, questo post?
- Ho sostituito l'immagine a sinistra perché il proprietario mi ha piantato un casino che non finiva più. Per pudore, risparmio il link al suo blog.
- Ho inserito altri titoli nella lista. Adesso ho la certezza che non scriverò mai TUTTE le recensioni.
La realtà è molto più semplice. Vorrei tenere traccia e memorizzare le mie riflessioni su quei libri, soprattutto narrativa, ma anche saggistica e in misura minore poesia, che hanno avuto un ruolo nel formarmi come lettore. C'è il rischio di banalizzare l'intento e finire con un becero Quali sono i dieci libri che mi porterei su un'isola deserta? Posso evitarlo, se ce la metto tutta.
Libri, si diceva. Libri che mi hanno fatto bene e che sono finiti troppo presto o al punto giusto o come desideravo. Guarda che è una gran fortuna, quando va così.
Perché si dovrebbe scrivere un post a parte su tutti quei libri che, per la loro manifesta bruttezza o per la loro irrecuperabile inutilità, non avrei mai voluto leggere. Una vera perdita di tempo.
Ma torniamo a quelli buoni. Adesso, il compito più difficile. Abbozzare l'elenco dei libri e - ma qui siamo nella fantascienza - scrivere un post per ogni libro.
Sto divagando. Ho qualche incertezza.
Per qualche strano motivo mi stanno venendo in mente i libri inutili prima di quelli memorabili. Alcuni libri sono divenuti inutili nel tempo, ovvero mentre acquisivo consapevolezza dello scrivere e del leggere. Penso, ad esempio, a molte cose di Kerouac. Letto diciamo tra la terza e la quinta liceo, Kerouac mi sembrava illuminante. Ma già allora stavo mentendo a me stesso. Mentre avanzavo con fatica (avevo molto tempo) tra le pagine de I vagabondi del Dharma o La città e la metropoli, mi rendevo conto che quei testi non sarebbero stati per me, adolescente nato e cresciuto in Italia, un'occasione di arricchimento cognitivo e morale. Era l'America degli anni 50, e vivaddio c'era il vecchio Jack a raccontarcela, ma non avevo riferimenti nel mio vissuto quotidiano tali da potermi immedesimare nei personaggi e vivere la storia da dentro. Sulla strada, sì: mi fece sognare, mi commosse, mi mise addosso la voglia di viaggiare per il gusto di farlo. Ecco, Sulla strada sarà uno dei titoli. Troppo scontato? Può darsi.
Ecco, ho divagato ancora. Ho parlato non troppo bene di Kerouac che se mi sente la Pivano si infuria. Dovevo scrivere dei libri edificanti per il mio spirito e ho cominciato con le critiche.
La tentazione di mettere in mezzo Coelho e il suo imbarazzante campionario da piazzista della religione, è forte. Ma me ne guardo bene.
E allora, dopo molte, troppe divagazioni, forse riesco ad arrivare all'elenco dei titoli.
Rullo di tamburi.
L'ultima premessa, lo giuro, ma è necessaria. Anzi, sembrerebbero due:
- Nell'elencare i titoli non seguirò alcun ordine, né alfabetico né cronologico né affettivo. Casuale.
- Quando e se ci riuscirò, dei libri non scriverò sinossi o critiche intelligenti o approfondimenti sui personaggi, ma solo quello che mi ricordo.
I migliori libri della mia vita (fino a qui).
Seguono aggiornamenti.
Seguono aggiornamenti.
Il simbolo *, bontà mia, è un link all'opera (fonti varie). Editore, ISBN e altre menate ve le cercate voi.
- Harper Lee, Il buio oltre la siepe (1960) *
- Ian McEwan, Il giardino di cemento (1978) *
- John O'Brien, Via da Las Vegas (1990) *
- Josephine Hart, Il danno (1999) *
- Chaim Potok, La scelta di Reuven (1987) *
- Jay McInerney, Le mille luci di New York (1984) *
- Heinrich Böll, Opinioni di un clown (1963) *
- Michel Houellebecq, Piattaforma (2003) *
- Gunter Grass, Il tamburo di latta (1959) *
- Kary Mullis, Ballando nudi nei campi della mente (2000) *
- Jack Kerouac, Sulla strada (1951) *
- Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo (1866) *
- Joe R. Lansdale, Maneggiare con cura (2004) *
- Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte, (1932) *
- Charles Bukowski, Compagno di sbronze (1967) *
- Jerome K. Jerome, Tre uomini in barca (1889) *
- Pierpaolo Pasolini, Ragazzi di vita (1955) *
- Lyman Frank Baum, Il mago di Oz (1900) * *
- Beppe Fenoglio, La malora (1954) *
- Woody Allen, Saperla lunga (1971) *
E ora come lo chiudo, questo post?
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