18 giugno 2009

Wired, ma senza Sofri.

Leggo Wired in versione inglese da un po' piu' tempo della media degli internauti italiani e sono abbonato all'edizione italiana dal primo numero, con entusiasmo, lo stesso con cui ho ricomprato anche il terzo numero che mi era stato sottrattao dalla casetta postale.

Diciamo che il mio attaccamento a questa testata non e' oggetto di discussione.

Lo e', forse, la scelta di alcuni contributors, che assai poco hanno di nuovo, fresco. Diciamo uno e diciamo che e' Luca Sofri. Che, non soffrendo esattamente di assenza dai media, firma puntualmente quei 2-3 pezzi a numero.

Sofri -- antipatichino, saccente e abbastanza snob -- scrive su un numero imprecisato di quotidiani e riviste e, instancabile, aggiorna il suo Wittgenstein (dalle cui pagine difende la moglie: ma ce n'era bisogno? Non sa la Sig.ra Bignardi cavarsela da sola?) , parla alla radio, presenta in TV.

Sofri, dicevo, appartiene a pieno titolo ad una casta, quella degli opinion leader non ancora ottuagenari ma nemmeno trentenni, ben piazzato e ben introdotto, e della sua invidiabile posizione puo' dispensare consigli ed omaggiare il globo di salaci e dissacranti corsivi.

Su posizioni non certo rivoluzionarie, il nostro e' abilissimo a trarre il massimo profitto dall'ambiente che lo circonda ed ospita salvo pero' impartire severe critiche a destra e a manca.

Sofri e' anche un riuscito esempio di mediafamily, non nell'accezione di famiglia media, ma nel senso di famiglia impiegata full time in ruoli prestigiosi dell'industria mediatica.

Insomma, un personaggio che e' si wired, perche' di rete e tecnologie, ad onor del vero, se ne capisce, ma il cui profilo mal si addice al (dichiarato) spirito di innovazione, trasformazione e cambiamento della rivista.

Wired, vi prego, senza Sofri: non e' lo spazio mediatico che gli manca.

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